“Peter Pan e l’isola che non c’è”. Il messaggio educativo
In quale metà?
Questa è una storia senza tempo, di ieri, come di domani… Tratta di un bambino che perde l’ombra, di un bambino orfano di genitori, di un bambino che, da subito, deve essere leader. Dice della “pericolosa” forza delle favole e di un Cantastorie che corre il rischio di raccontarle, o meglio di raccantarle. Si, è un rischio perché le favole distolgono dalle cose serie, distraggono dallo studio, da un’adultità austera e produttiva… Povero cantastorie!
Questa è una storia che parla di polvere di stelle, polvere magica… di favole vere solo a metà… che significa che per metà non sono vere e che per metà sono vere. Quale sarà la metà vera? E in quale metà ci troviamo quando ascoltiamo le favole? E quando le raccontiamo?
Ecco la difficoltà: scoprire quale sia la metà vera di ogni favola, per vincere il rischio e la paura di gettare via tutto in pasto al Coccodrillo (che in fondo piange, anche quando mangia i propri figli).
Ecco la storia di Peter Pan che, come da sempre si è detto, è l’eterno fanciullo, il bamboccione che non vuole crescere, attaccato alla mamma, ma questo è vero solo per metà… Qui vi vorrei proporre un’altra lettura: l’altra metà. Liberi dal condizionamento della sindrome di Peter Pan che ci vuole eterni, irresponsabili bambini, vi chiedo di leggere la storia di Peter Pan come quella di un bambino senza adulti.
Una lettura attuale se ci chiediamo: oggi i nostri ragazzi quali adulti incontrano? Forse, dentro un razionalismo esasperato, noi adulti non educhiamo ad alzarci da terra, perdendo, così, l’occasione di poter volare. E papà Agenore è un buon rappresentante di questa categoria dei taglia-sogni.
Forse i nostri giovani, liquidati troppo celermente con frasi del tipo: “sono solo canzonette”, o delusi dal nostro disincanto, perdono la metà della favola, quella vera.
Nelle favole, nelle canzonette c’è qualcosa che ci può educare a volare, a non negarci la possibilità di spazi utopici, di spinte verso l’alto, a orientarci verso l’isola che forse c’è, perché in fondo è il viaggio che fa crescere ciascuno di noi e la meta è solo un punto da cui ripartire…
Quali adulti incontrano i nostri ragazzi? Capitan Uncino, chiuso nel suo ruolo di potere (è o non è Capitan Uncino), Spugna (lamentevole insoddisfatto di ciò che fa)? I Pirati, succubi e ubriaconi; Agenore; la mamma di Wendy; il Capo Tribù… di quali genitorialità sono orfani?
Verrebbe da dire, con la tribù degli indiani e con Giglio Tigrato: Non so darti torto ragazzino, non so darti torto. Mi metto nei tuoi panni e mi accorgo che il mondo mi va stretto e vedo vedo vedo da che pulpito arriva la morale è una gara a chi le spara più grosse e a chi finge di abboccare
In fondo, Peter Pan è l’eterno bambino, perché è il bambino senza adulti, solo altri bambini sanno mettersi nei suoi panni. Solo passo dopo passo, e un po’ grazie a Wendy, Peter Pan saprà cantare “Viva la mamma affezionata a quella gonna un po’ lunga…”
Riconosce e gli manca una mamma indaffarata e severa, che sa raccontare favole, che sa dettare le regole. In questo canto si percepisce una sorta di nostalgia. In fondo, Peter non sa nemmeno cosa sia un bacio… figuriamoci cosa sia una mamma! E quando si vive l’assenza dell’affetto, l’affetto della mamma, ci si tumula nei sensi di colpa, nella fuga da ogni cosa, nel rimanere infantili. Ci si sente sperduti, proprio come i bambini sperduti… che, forse per questo, si sono persi.
Peter Pan li accoglie, ne diventa leader, anche perché sa abitare isole che non ci sono, sa alzarsi da terra, sa volare, sa afferrare le stelle… Forse la sua distanza da alcuni adulti lo ha protetto dal taglio delle ali, lo ha conservato nella forza del sogno. E il coro ce lo ricorda: si può sognare il grande amore: chi non sogna non trova!
E così il mondo si divide in due metà non sempre esatte: chi sogna ancora il grande amore e chi crede che si tratti solo di una illusione.
E Peter Pan non sa ancora da quale parte stare, perché non ha incontrato “adulti chiari”.
Ma chi di noi sa sempre da quale parte stare? Di quale metà faccia parte? Una favola è vera solo a metà… in quale metà della favola ci troviamo? In quella del crudo realismo, o in quella condita da un po’ del bello della fantasia?
Per imparare a volare bisogna pensare a qualcosa di molto bello, bisogna saper cantare la fantasia e questo lo sa fare chi sa accompagnare lungo la buona notte, come fa una mamma con i suoi piccoli:
Fantasia, fantastica astronave per viaggiare più in alto delle stelle e guardare l’altra faccia della luna…
Educhiamo i nostri figli a tante cose… quale educazione riserviamo alla fantasia e quale fantasia ha spazio nella nostra educazione? Educhiamo il cervello, il corpo… E la fantasia? In un mondo dove tutto è immagine, tutto è visibile, quale spazio c’è per la immaginazione, per l’invisibile che la alimenta? Senza fantasia non si viaggia, non si vede l’altra faccia della luna, quella dopo la seconda stella a destra, quella abitata da fatine un po’ bambine.
Coccodrilli, pirati, adulti seri, o poco affidabili, bambini, tanti bambini… E poi c’è Trilly, la fatina che si innamora, la fata gelosa, che sbaglia. Perché nelle favole anche le fatine possono sbagliare (Evviva!).
La fata che salva Peter dal veleno bevendolo al suo posto. La fata che paga di più, che salva Peter dalla sua indomabile autoreferenzialità, che gli fa dire la fase dell’adulto: senza di te non posso vivere!
Io credo nelle fate, io credo nelle fate… La fata che fa credere che oltre a noi stessi c’è qualcuno che ci tiene a noi, c’è qualcuno che c’è, che dà la vita… E anche Peter c’è per la sua fata: Io credo nelle fate. A volte bisogna credere nell’altro per salvargli la vita. Anche se l’altro sbaglia… Peter Pan lo ha capito! Per questo possiamo dire che è finalmente cresciuto.
E quando cresce un capo, crescono tutti, nonostante i pirati e Capitan Uncino.
Qualche altra peripezia, il coccodrillo -che non manca mai- e alla fine si torna tutti a casa, tutti insieme dentro il canto di una madre che sa ammorbidire pure la durezza del padre, dentro un canto che ha musica di perdono e comprensione. Dentro un canto che tutti cantano:
Ogni favola è un gioco che finisce se senti tutti vissero felici e contenti forse esiste da sempre, non importa l’età perché è vera soltanto a metà!
Non esiste l’età, non si tratta di rimanere bambini o di far finta di essere adulti, di essere indiani o pirati, ma di saper stare nella metà giusta, che forse è l’isola che c’è, la polvere che fa volare, i panni del ragazzino che non ha tutti i torti. Perdersi con i bambini perduti, per ritrovarsi insieme in famiglia; credere in una fatina che può sbagliare. E’ una favola, non è la realtà, o forse è quella metà della favola che è la realtà (o quella metà della realtà che è una favola).
La realtà anche di questa Associazione Attendiamoci e di questi suoi giovani che con cuore e coraggio sono cantastorie di favole belle, di immaginazioni possibili, di quella polvere di stelle che ci fa alzare un poco da terra.
E’ impossibile? No, no, basta crederci… perché ogni volta che non credi, qualcosa muore… E ogni volta che credi in qualcuno, anche se ha sbagliato, tutta la via rinasce.
Io credo nelle fate. Gridiamolo insieme: IO CREDO NELLE FATE
don Valerio Chiovaro